Testimonianza della Persona Offesa da un Reato

Imi soffermo sul contenuto sempre attuale di una non recente decisione nella quale la suprema Corte ha ribadito un orientamento ormai consolidato in materia di testimonianza della persona offesa ripetendo che la stessa,

“per poter essere legittimamente utilizzata come fonte ricostruttiva del fatto per il quale si procede, non necessita di altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilità ma, anzi, al pari di qualsiasi altra testimonianza, è sorretta da una presunzione di veridicità secondo la quale il giudice, pur essendo tenuto a valutarne criticamente il contenuto, verificandone l’attendibilità, non può assumere come base del proprio convincimento l’ipotesi che il teste riferisca scientemente il falso”. Con la conseguenza che – se non “sussistano specìfici e riconoscibili elementi atti a rendere fondato un sospetto di tal genere (….) egli deve presumere che il dichiarante, fino a prova contraria, riferisca correttamente quanto a sua effettiva conoscenza”.
Detto altrimenti “in assenza di siffatti elementi, il giudice deve presumere che il teste, fino a prova contraria, riferisca correttamente quanto a sua effettiva conoscenza e deve perciò limitarsi a verificare se sussista o meno incompatibilità fra quello che il teste riporta come vero, per sua diretta conoscenza, e quello che emerge da altre fonti dì prova di eguale valenza”.
E’ ben vero che la perentorietà dell’affermazione è temperata da “la testimonianza della persona offesa, soprattutto quando portatrice di un personale interesse all’accertamento de! fatto, deve essere certamente soggetta ad un più penetrante e rigoroso controllo circa la sua credibilità soggettiva e l’attendibilità intrinseca del racconto”; tuttavia la portata di quel temperamento è subito contenuta dalla precisazione che “ciò non legittima un aprioristico giudizio di inaffidabilità della testimonianza stessa (espressamente vietata come regola di giudizio) e non consente di collocarla, di fatto, sullo stesso piano delle dichiarazioni provenienti dai soggetti indicati dall’art. 192, commi 3 e 4, cod. proc. pen. (con violazione del canone dì giudizio imposto dall’art. 192, comma 1, cod. proc. pen.)”.
Quando – prosegue la decisione – si tratti di giudicare in materia di reati sessuali, il discorso si fa più complesso in quanto la “valutazione risente della particolare dinamica delle condotte II cui accertamento, spesso, deve essere svolto senza l’apporto conoscitivo di testimoni diretti diversi dalla stessa vittima”. Sicché, in tale situazione “la deposizione della persona offesa può essere assunta anche da sola come fonte di prova della colpevolezza, ove venga sottoposta ad un’indagine positiva sulla credibilità soggettiva ed oggettiva di chi l’ha resa, dato che in tale contesto processuale il più delle volte l’accertamento dei fatti dipende necessariamente dalla valutazione del contrasto delle opposte versioni di imputato e parte offesa, soli protagonisti dei fatti, in assenza, non di rado, anche di riscontri oggettivi o dì altri elementi atti ad attribuire maggiore credibilità, dall’esterno, all’una o all’altra tesi”.
Quali sono le conclusioni cui pervenne la sentenza in analisi?
“Non è pertanto giuridicamente corretto fondare il giudizio di inattendibilità della testimonianza della persona offesa sul solo dato dell’oggettivo contrasto con le altre prove testimoniali, soprattutto se provenienti da persone che non hanno assistito al fatto. Ciò equivarrebbe a introdurre, in modo surrettizio, una gerarchia tra fonti di prova testimoniali che non solo è esclusa dai codice di rito ma che sottende una valutazione di aprioristica inattendibilità della testimonianza della persona offesa che, come detto, non è ammissibile”.
La delicatissima materia mi suggerisce alcuni spunti di riflessione quanto meno su queste ultime statuizioni.
Il primo è generale e di metodo.
“In tema di reati sessuali tale valutazione risente della particolare dinamica delle condotte iI cui accertamento, spesso, deve essere svolto senza l’apporto conoscitivo di testimoni diretti diversi dalla stessa vittima” potendosi contare in tal caso solo su narrati altri “provenienti da persone che non hanno assistito al fatto”.
Questa affermazione di principio pare contenere una vera e propria “linea guida”, … delicata, data la cattedra dalla quale proviene e alla quale è poi destinata a riconfluire la verifica della correttezza delle decisioni dei giudici di merito.
E’ corretta – mi chiedo – o, quanto meno, è correttamente espressa?
Essa mi sembrerebbe stabilire una graduazione di intensità del dovere di valutazione distinguendo tra tipi di reati. In primo luogo tra reati sessuali e reati altri. Secondariamente, in particolare, tra reati sessuali consumati in assenza di terzi e reati altri consumati in diversa situazione.
Una graduazione che mi appare inaccettabile, perché contra legem, finché resista e non venga assoggettato a contenimenti il principio tassativo positivo (articolo 533.1 c.p.p) che condiziona la pronunciabilità della sentenza di condanna all’accertamento della colpevolezza “al di là di ogni ragionevole dubbio”.
Il secondo spunto attiene al contrasto tra proposizioni che potrebbe leggersi nelle due affermazioni
“la deposizione della persona offesa può essere assunta (…) da sola come fonte di prova della colpevolezza, ove venga sottoposta ad un’indagine positiva sulla credibilità soggettiva ed oggettiva di chi l’ha resa”,
a fronte di
“non è giuridicamente corretto fondare il giudizio di inattendibilità della testimonianza della persona offesa sul solo dato dell’oggettivo contrasto con le altre prove testimoniali”.
Spero di non errare sostenendo che “l’oggettivo contrasto” tra la una specifica testimonianza (sia essa di un quisque o della persona offesa) e le altre prove testimoniali sia destinato in ogni caso a calare un dubbio sull’attendibilità (del narrato) o sull’affidabilità (del narrante) di qualsiasi testimonianza restando da stabilire soltanto quale livello raggiunga quell’inficiamento lungo la articolata scala che sale dal gradino “credibilità certa” (riportabile all’articolo 533.1 c.p.p.) al gradino “non credibilità certa” (riportabile all’articolo 530.1 c.p.p).
E, dunque, posto che per condannare in sede penale è imposto proprio il criterio della credibilità accertata al di là di ogni ragionevole dubbio, pare già solo per questo obiettabile l’affermazione che “non è giuridicamente corretto fondare il giudizio di inattendibilità della testimonianza della persona offesa sul solo dato dell’oggettivo contrasto con le altre prove testimoniali” proponendo invece come più condivisibile – con effetti positivi ricadenti sul possibile giudizio civile (nel quale vale il principio del “più probabile che non”) – quella che l’oggettivo contrasto tra prove precluda la pronunciabilità del giudizio di condanna pur non screditando l’attendibilità della testimonianza della persona offesa.
Non credo, peraltro, che ci si possa aspettare di sentir condividere simile conclusione in sede giudiziale – specie quando si tratti di specifici reati e di processi sotto il clamore dei media – fintantoché il giudice penale sentirà il peso dell’essere investito delle conseguenze pregiudizievoli che dal suo allineamento alla stessa ricadrebbero sulle aspettative delle parti offese.
Queste note non hanno ovviamente la pretesa di fornire soluzioni; né intendono minimizzare la difficoltà delle problematiche sottese al decidere in determinate situazioni critiche (vedasi in particolare quando si fronteggino le sole affermazioni accusatorie di una parte offesa e le contrapposte dichiarazioni difensive dell’imputato). Esse aspirano soltanto a suscitare riflessioni che, concorrendo, potrebbero giovare a elaborare un criterio di giudizio il più possibile affidabile tenuto conto dei valori e dei diritti in gioco.
In cos’altro dovrebbe consistere, a cosa dovrebbe tendere, il giusto processo?

Avv. Domenico Carponi Schittar