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Le cronache quotidiane sono dense di notizie riguardanti violenze, spesso efferate, perpetrate in ambito familiare, o ad esso contiguo.
Spesso ne sono vittime persone di genere femminile, di ogni età, di ogni etnia.
L’impatto emotivo di certe vicende, in particolare quelle che hanno come epilogo la morte, spesso cruenta, della vittima, ci rende sovente increduli, disarmati, impotenti, ingenerando diffuse sensazioni, talvolta di rabbia, talora di sgomento, che spesso si accavallano, si confondono, provocando considerazioni e conclusioni spesso irrazionali e irragionevoli.
Due sono i piani sui quali prende corpo la “reazione”:
(a) ci si interroga sulle motivazioni; invero questa “riflessione” spesso si arresta davanti alla soglia dell’ “impotenza cognitiva” (era una famiglia normale, educata, cortese, nessun segno esteriore di disagio, gran lavoratori…)
(b) si sanciscono – in versione “tribunale del popolo” – i “rimedi” (a morte, ergastolo, devono buttar via la chiave…!).
La reazione emotiva “sanzionatoria” differisce molto, a seconda che il reo sia di origini diverse dal contesto di riferimento (se l’autore del crimen è “meridionale”, quando i fatti avvengono in questa parte di mondo, o straniero…), o in relazione al movente (l’anziano che sopprime il coniuge irreversibilmente malato, o il genitore che uccide il figlio violento tossicodipendente).
E la reazione giudiziaria?
A dir poco paradossale…
Per placare lo sconcerto sociale e la sete di vendetta, i giudici applicano quasi sempre misure cautelari custodiali, pur in evidente assenza di concrete esigenze di difesa della collettività.
Non occorre essere fini giuristi per comprendere: (a) come l’atto violento (si pensi all’uxoricidio) sia quasi sempre irripetibile, (b) come non vi sia mai, o quasi mai, concreto pericolo di fuga (spesso il reo si costituisce), (c) come non vi sia pericolo di inquinamento probatorio (sovente il reo è confesso).
Eppure “la società” deve essere tutelata, primariamente attraverso una sorta di “rassicurazione”: l’istituzione Giustizia deve dimostrare di esserci e di assumere subito decisioni contenitive, che plachino la sete di tranquillità sociale e di vendetta, o ne riducano la portata.

L’aspetto su cui intendo soffermare la mia riflessione (e stimolare la vostra), riguarda una ipotesi di indagine sulle cause prime dell’agire violento, in particolare, ma non solo, nell’ambito della cd “violenza di genere”.
Ciò nel tentativo di offrire un contributo alla comprensione vera (e, se possibile, al contenimento) del fenomeno.

Considero la violenza essenzialmente un effetto “reattivo” nei confronti di chi impedisce o si pensa possa precludere, o limitare, la soddisfazione di bisogni, la realizzazione di desideri.
Il fenomeno riguarda non solo le relazioni “di genere”, ma ogni interrelazione umana.
L’essere umano (in ottica psicolanalitico-freudiana) è primariamente pulsione, desiderio.
Se tu sei l’ostacolo a che io possa cibarmi o abbeverarmi, o procurare il cibo per me e la mia famiglia, io reagisco.
Se tu sei l’ostacolo al mio bisogno di procreare, io reagisco.
Questi i bisogni primari dell’uomo (del maschio, nel secondo caso).
Poi vi sono ulteriori declinazioni del bisogno, che si collocano nell’ambito della sicurezza, della salute, in proiezione di un benessere fisico, psichico e sociale (definizione di salute secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità).
L’azione reattiva può trovare causa scatenante nella passione verso “l’altro”, e diventa violenta in ipotesi di non reciprocità, reazione che l’uomo probo dovrebbe riuscire a “contenere” in uno spazio interiore.
Quando la passione non viene “contenuta”, diventa, appunto, violenza e va a violare “l’altro”, portatore di diritti alla libertà morale, fisica e sessuale.
La reazione può trovare origine – anche, ma non solo – in una volontà di dominio del maschio sulla donna, che può rivelare nel profondo anche un primario bisogno di protezione, che nasconde una profonda debolezza, con conseguente timore di non essere “curato”, o paura di essere abbandonato.
E la violenza così manifestata può essere l’effetto, spesso patologico, di una condizione di gelosia (tu mi porti via ciò che è mio…).
Desiderio, dunque, come matrice della condizione umana e limite delle relazioni umane, anche, ma non solo, in ambito affettivo-sentimentale.
Piacere, come oggettivazione finalistica del desiderio.
E’ giusto porre limiti al piacere? Sicuramente si: vedrei il limite nella tolleranza, da parte dell’altro, della esteriorizzazione dei nostri desideri, originati dalle pulsioni, energie primordiali che trovano matrice comune nella libido, unica energia pura che esiste in natura.
La violenza, dunque, in questo quadro si manifesta come effetto di un desiderio “represso” o comunque, non espresso: è energia che, allorchè si esprime in queste forme, necessita di controllo sociale e giudiziario.
L’ES sotto controllo del SUPER-IO. Controllo e contenimento, come “necessità sociale”.

Pertanto, l’evoluzione del percorso di crescita dell’uomo presuppone che la pulsione non esondi nel terreno del vizio, che germina violenza.
Ma cosa dobbiamo intendere per vizio.
Posso proporne una definizione in termini di alterazione di un processo di crescita, di incidente di percorso, di entità che turba il lineare evolversi della vita umana.
O in termini di corto circuito energetico.
Chi agisce violenza, di genere, spesso lo fa non essendo in grado, in quel momento di gestire la pulsione. Di rispettare il limite all’espressione del piacere che gli pone l’altro, spesso la donna. Nella violenza c’è sempre un contrasto reciproco sul limite alle pulsioni.
Ecco dunque che interviene la norma, che pone la sanzione all’eccesso di pulsione non tollerato dal destinatario della stessa. È un limite che diventa parte integrante del percorso di crescita personale, che nel cammino umano assume valore di consapevolezza costante verso la conoscenza.

In epoca medievale, essere un Cavaliere significava aderire ad un preciso codice etico-comportamentale, operare e vivere in conformità a queste regole che, in pratica, traducevano in realtà la ricerca dell’idea di perfezionamento umano derivante dall’antico archetipo della Giustizia che prevedeva specificatamente la difesa del “gentil sesso”, benevolenza e misericordia verso gli altri, il disinteresse al vantaggio personale, etc.
Ecco, ad esempio, la promessa a cui si sottoponevano i Cavalieri della Tavola Rotonda, secondo il Nobel per la letteratura John Steinbeck: “Giurarono di non ricorrere mai alla violenza senza un giusto scopo, di non abbassarsi mai all‘assassinio e al tradimento. Giurarono sul loro onore di non negare mai misericordia a chi ne facesse richiesta, e di proteggere fanciulle, gentildonne e vedove, di difendere i loro diritti e di non imporre ad esse la loro lussuria con la forza. E promisero di non battersi mai per una causa ingiusta o per vantaggi personali. Questo giuramento pronunciarono i Cavalieri tutti della Tavola Rotonda, ed ogni Pentecoste lo rinnovarono”».
Dunque, per l’archetipo della Giustizia, il gentil sesso va difeso. Il Cavaliere ha questo compito.
Nella nostra società esiste ancora il Cavaliere? Se sì, ha ancora quella nobile funzione?
Nel nostro cammino umano, per evitare di farsi dominare da pulsioni violente, occorre innanzitutto partire da se stessi:
(a) cercando primariamente di comprendere, nel profondo, le nostre disarmonie interiori e la loro origine, sempre prodotte da desideri irrealizzati o contrastati
(b) mettendo noi stessi in relazione con l’altro e con i suoi desideri
(c) ponendo noi stessi tra due desideri in conflitto, offrendo il nostro contributo in direzione di una riarmonizzazione della relazione.
Tutto questo in un’ottica di prevenzione della violenza.
Il disagio, se non compreso, se non “attraversato”, può generare violenza. Su questo occorre lavorare.
Se assumiamo questa “forza”, che è primariamente conoscenza e che parte dal nostro intimo, potremo autoproclamarci, almeno metaforicamente, “Cavalieri”.

Da ultimo, ruolo fondamentale nel contesto sociale assumono le pubbliche autorità che, in un’ottica soprattutto di prevenzione delle diverse forme di violenza, dovrebbero, “da statuto”, attraverso le diverse “funzioni”:
(a) effettuare una mappatura dei contesti socio-familiari del territorio
(b) effettuare un monitoraggio del disagio in detto contesto
(c) intervenire laddove si annida il disagio.
E la speciale sensibilità, l’attitudine e l’abitudine alla riflessione profonda, la consapevolezza del quadro d’insieme che occorre prendere in considerazione ogniqualvolta si analizzano fenomeni umani e sociali, possono essere indubbiamente fattori di grande utilità anche nel contesto delle pubbliche responsabilità.

Avv. Claudio Maruzzi
MGTM AVVOCATI ASSOCIATI