Lo Spirito del Processo Penale Accusatorio

Dato l’ambiente nel quale spero sia destinato ad essere letto quanto esporrò qui di seguito, questo breve scritto vorrebbe essere una chiamata attorno a un tavolo di confronto dal cui lavoro potrebbe scaturire, anche a seguito di un corale dissenso, un utile chiarimento o addirittura un utile sviluppo.

Sostengo – riprendendo qui un argomento cui ho accennato solo embrionalmente in un mio recente lavoro – che lo spirito del processo penale accusatorio che abbiamo voluto è stato tradito (anche) sotto il seguente profilo.

Abbiamo formalizzato il principio dell’ “al di là di ogni ragionevole dubbio” (e abbiamo superato l’atteggiamento minimalista originario che aveva portato sostenere che “la formula avrebbe avuto un carattere descrittivo più che sostanziale”).

Ossia un principio la cui “intensità” si palesa – ove non risultasse abbastanza chiara – mettendola a confronto con la “considerazione di non colpevolezza” portata nel secondo comma dell’articolo 27 della Costituzione (espressione che – a me – sembra lasciar trapelare un’impressione di padronale condiscendenza da parte dello Stato).

L’introduzione del principio, avvenuta con legge 46 del 2006, ha chiuso un cerchio che mi sembra si sia preferito equivocare fino ad allora ritenendo che non fosse stato sufficientemente serrato dal concorso degli inequivoci portati dell’articolo 358 c.p.p, dell’articolo 125 delle disposizioni di attuazione, dell’articolo 425 c.p.p. comma tre, culminando nell’articolo 129 dello stesso codice.

Quale cerchio?

Il cerchio che – una volta fugato il convincimento che la volontà del codice (ossia del legislatore; ossia: nostra) sia attuabile a capriccio a dispetto del chiaro disposto dell’articolo 124 c.p.p. (questo è l’orientamento giurisprudenziale) – racchiude in sé l’indirizzo del corretto percorso di indagine quale pare logicamente deducibile dall’impostazione ideale del procedimento accusatorio adottato. Ossia: a fronte di una notizia di reato va stabilito in prima battuta il più celermente possibile se l’indagato sia da prosciogliere non se egli sia da sottoporre al giudizio.

E’ questa la tesi che propongo alla discussione ritenendola altro che un banale un gioco di parole. Se infatti per la legge – di fronte alla legge, di fronte alla società, di fronte al consesso dei propri simili – si presume che un soggetto non abbia commesso alcunché di illecito, mi sembra sia la forza della logica a dettare che la prima attività da svolgere debba essere tesa ad accertare se quella presunzione (con tutto il patrimonio morale, sociale ed anche economico che comporta, e che il solo dubbio abitualmente distrugge o inficia) regga, non se o che quella presunzione è venuta meno.

(Evinco una conferma indiretta della ragionevolezza del mio convincimento da un commento d’area accusatoria di M.H. Graham ai Federal Rules of Evidence statunitensi il quale osserva che “il termine <difesa> è usato e abusato sovente in maniera fuorviante in sede penale” in quanto “l’addurre difese quali la legittima difesa o la forza maggiore non comportano che sia l’accusato a dover provare che sono <più probabili che non>” e invece ”il maggiore effetto che possono provocare è solo quello di comportare maggiori responsabilità sull’accusa quanto all’istruzione del suo caso”).

Che l’affermazione meriti un momento di riflessione è provato, dalle conseguenze che la condivisione della tesi avrebbe sul rendere più stringente l’osservanza dei disposti degli articoli succitati. Con incidenza, ad esempio, sull’orientamento incondivisibile (perché inequivocabilmente collidente con la lettera della legge e con lo spirito informatore del codice) secondo il quale il dovere (art.358 c.p.p.:“svolge”!) di accertamenti da parte del pubblico ministero “su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini” non sarebbe un must e addirittura sarebbe superato dal fatto che l’indagato (ossia il presunto innocente) svolga indagini difensive… Sì: sulla propria ritenuta innocenza!