Le Indagini Difensive fra Aspettative Deluse e Incerte Prospettive

A quasi 20 anni dall’entrata in vigore (18 gennaio 2001) della L. 397/2000 – “Disposizioni in materia di indagini difensive “- occorre avere l’onestà intellettuale di riconoscere che l’impiego di questo rivoluzionario e assolutamente innovativo (per la nostra cultura processualpenalistica ) strumento della operatività difensiva, vive ancora in una condizione grandemente “sperimentale” e di tribolata disomogeneità applicativa.
Non solo, ma questo tanto agognato parto normativo è tutt’ora fatto oggetto di approcci diffidenti, quando non addirittura esplicitamente ostili, da parte di non pochi magistrati e , incredibile a dirsi, di larghi strati della avvocatura penale.
Alla luce di ciò, appare decisamente consentito affermare che , nello sconfinato firmamento delle idealità deluse innescate nell’ambito del “nuovo” codice di procedura penale, un posto d’onore (negativo) spetta proprio alle aspettative suscitate dalla L. 397/2000 .
Da un sondaggio condotto due anni or sono dalla Camera Penale di Como e Lecco ed esteso su scala nazionale, era emerso un dato inquietante circa l’utilizzo (bassissimo) della attività di investigazione difensiva. Attività che, fra la variegata gamma delle tipologie di iniziative investigative a disposizione dei difensori , contemplate dalla L.397/2000 , vedeva realizzati quasi esclusivamente gli istituti riguardanti l’assunzione di informazioni o la ricezione di dichiarazioni (art.391 bis c.p.p.): oltre, naturalmente, il colloquio non documentato, propedeutico ad essi.
Quindi, paradossalmente, è proprio l’avvocatura penale, più ancora della magistratura, ad avere significativamente vanificato, se non proprio radicalmente bocciato , quello che era stato salutato come un momento di grande rivalutazione e vitalizzazione del compito difensivo . Momento indispensabile per l’attuazione del rilevante progetto ideale e pratico – insistentemente reclamato dal Foro penale – finalizzato al conseguimento di quella effettiva “parità delle armi”, di quella sostanziale “equivalenza” operativa fra p.m. e difensore ,che rappresentano il presupposto ineludibile di una efficace e spendibile operatività difensiva .
Perché , allora , dinanzi ad una legge espressamente voluta per conseguire questo obiettivo così fondamentale nella costruzione di un avvocato difensore, un avvocato che possa incidere sul corpo processuale con la stessa forza del p.m. , un difensore che possa divenire interlocutore autorevole ed efficace dinanzi ad un giudice realmente imparziale e indotto ad ascoltarlo e a valutare il prodotto della sua attività alla stessa stregua di quella del p.m. , perché gran parte dell’avvocatura penalistica italiana ha espresso un atteggiamento spesso disinteressato , quando non addirittura diffidente o, peggio , ostile ?
Le ragioni di una così contraddittoria risposta nei confronti delle indagini difensive, (a parte il pur innegabile problema del rilevante costo che lo svolgimento di attività di investigazione difensiva comporta) vanno individuate , a mio avviso , nel fatto che, in generale, questo eccezionale strumento di indagine e di conseguimento di una nuova forma di “consapevolezza “ difensiva , presuppone un approccio culturale e pratico assolutamente nuovo da parte del difensore; un approccio con ricadute importanti anche sul piano della deontica difensiva e suscitatore di una innovativa etica della difesa penale.
Due sono gli aspetti sui quali il modello difensivo imposto dalla attuazione della L.397/2000 , incide fortemente e pretende un decisivo cambiamento di “pelle” del difensore.
Uno, importante , ma non principale , consiste nel fatto che lo svolgimento di indagini difensive , sia pure nel limitato ambito della assunzione di informazioni, impone al difensore penale una capacità di iniziativa , una attenzione , una diligenza ed una tempistica operativa alle quali il modello processuale ante L.397/2000 non lo aveva minimamente assuefatto . Vissuto in una storica posizione subalterna al p.m. ed abituato a “giocare di rimessa” secondo il modello della difesa reattiva , ma non attiva , l’avvocato difensore si è trovato dinanzi ad uno strumento tipico del modello difensivo per lui sconosciuto: il modello della difesa “attiva” e dinamica , una difesa addirittura anticipatrice, talvolta, della stessa iniziativa del p.m.! L’applicazione della L.397/2000, in sintesi , toglie il difensore dalla posizione di passività operativa nella quale era tradizionalmente vissuto ,posizione tutto sommato “comoda”, e lo costringe a farsi parte diligente; parte propulsiva e propositiva , parte “formatrice” di materiale probatorio dal valore processuale spendibile “alla pari” col p.m.
Ma tutto questo significa dover abbandonare una certa tradizionale “pigrizia” operativa ; anche il semplice colloquio non documentato (non parliamo , poi , della assunzione di informazioni , istituto la cui difficoltà di realizzazione e la cui complessità , anche psicologica , pretendono davvero un notevole bagaglio di esperienza e di professionalità) impone grande impegno da parte del professionista , non tollera approssimazioni e richiede puntuale preparazione preventiva del difensore sull’oggetto dell’indagine . Nell’assunzione di informazioni , poi , tutto questo viene ulteriormente accentuato onde evitare che domande e risposte si dilatino ben oltre il “thema” considerato e trasformino la deposizione e la relativa verbalizzazione in un mare magnum di frasi e concetti prolissi ,indistinti, inutili e confusi .
Questa è, a mio avviso, anche la ragione per cui l’accesso all’istituto del ricorso immediato al giudice di pace (previsto dall’art. 21 D.Leg. 28 agosto 2000 n.274) non ha avuto quell’impiego che, auspicato dal legislatore, avrebbe davvero rappresentato un importante banco di prova per l’estensione della c.d. “azione penale privata”: sottraendo il procedimento penale alla prevalente iniziativa del p.m., alleggerendone l’impegno operativo e riducendo sensibilmente, per una sempre più diffusa categoria di reati, lo spinoso problema della “obbligatorietà” dell’azione penale.
Predisporre un efficace “ricorso immediato” al giudice di pace comporterebbe, il più delle volte, una notevole diligenza nel predisporre, anche attraverso l’assunzione di informazioni ex art. 391 bis c.p.p., il materiale probatorio necessario: molto più semplice e facile affidarsi alla solita “querela”, che non impegnarsi in un percorso investigativo e argomentativo complesso e articolato.
L’altro fattore , ancor più determinante del precedente nella determinazione dell’ inadeguato utilizzo della L.397/2000, è di natura ideale .Esso è rappresentato da quella che appare ancora la prevalente concezione della difesa penale secondo il modello ( storico ) di una attività di natura esclusivamente privatistica avente , quale unico scopo , il soddisfacimento dell’interesse del proprio “cliente” anche a costo di sostenere deliberatamente la “menzogna”. In questa prospettiva , peraltro giustificata dall’assetto normativo e deontico vigenti, il processo penale non appare strumento della conseguita civiltà giuridica e sociale , nel quale le regole servono a garantire lo svolgimento corretto del meccanismo accertativo e dal quale dovrebbero essere espunte iniziative o condotte volte a sostenere – col deliberato intento di trarre in inganno gli altri soggetti del rapporto processuale – scenari falsificatori degli elementi processuali acquisiti .
In tale tradizionale contesto ideale, normativo e deontico, gli avvocati difensori sono sospinti ad operare, di fatto, come delle “coscienze a nolo” ( secondo la lapidaria e pertinente definizione espressa da Remo Danovi) ,pronti ad assecondare le esigenze e le richieste ( naturalmente non di natura illecita !) del cliente .
Essi non si sottraggono ad una conduzione caratterizzata da una ricostruzione menzognera degli accadimenti; né questo, per la verità, risulta vietato da nessuna disposizione di legge. Così facendo, appare evidente come si vengano a trovare in difficoltà nel dover affrontare e svolgere l’inconsueto ruolo di “parte imparziale”, presupposto dalla L.397/2000 !
Essi sono lontani dal considerare la verità processuale genuinamente acquisita ,sovrano riferimento per le scelte difensive. Questa diffusa categoria professionale di cui fanno parte – è doveroso sottolineare , a dimostrazione di come il problema presenti aspetti di indubbia problematicità – valorosissimi esponenti della avvocatura italiana , non agisce affinchè tale “verità processuale ” emerga, nitida e genuina, dai diversi approfondimenti effettuati ed effettuabili . Oppure risulti da una confutazione, magari aspra, ma svolta sul piano di una dialettica che non sia mistificatrice dei dati di fatto oggettivamente acquisiti .
Tali difensori, invece, considerano lecito mascherare i dati conosciuti (attraverso il proprio assistito o testimoni indubitabili o documenti inequivoci) e manipolarli, “inventando” una narrativa consapevolmente falsa .
Ma attraverso questa metodologia comportamentale rispondente al modello “tradizionale” e normativamente lecito della difesa penale, il difensore mortifica, ad avviso di chi scrive, un modello innovativo nello scenario processuale: quello connesso al metodo del “contraddittorio” nella formazione della prova. Strumento costituzionalizzato quasi in concomitanza con il varo della L.397/2000 ,attraverso l’arricchimento previsionale dell’art.111 secondo comma Costituzione: “contraddittorio” che in tanto assume un significato di effettività , in quanto si basi sulla “genuinità” della interlocuzione fra le parti processuali che ad esso danno vita. Apparirebbe ben misera cosa, nonché vuoto nominalismo, porre al centro della formazione della prova il metodo del “contraddittorio”, qualora i suoi artefici non venissero vincolati ad uno statuto di veridicità ed onestà intellettuale !
Un siffatto modello di operatività difensiva basato sulla facoltà, da parte dell’avvocato, di cooperare con il proprio assistito per elaborare una ricostruzione menzognera da proporre nel procedimento, appariva consentito e, quasi, necessitato dal sistema processuale previgente in cui il difensore era un “convitato di pietra” al “banchetto” giudiziario.
Ma ora, nel momento in cui, proprio attraverso la L.397/2000, è allo stesso difensore che viene riconosciuta la possibilità di attivarsi ed incidere nel tessuto processuale con strumenti identici , sul piano della valenza probatoria ,a quelli utilizzabili dal p.m. , questo medesimo modello non dovrebbe più apparire accettabile e il suo utilizzo determina una innegabile contraddizione !
Per i difensori legati al modello operativo “tradizionale”, quindi, l’applicazione della L.397/2000 costituisce un momento di plurime difficoltà, se non anche di forti contraddizioni , davvero difficile da affrontare .
Altra eloquente difficoltà prospettica (rispetto alle indagini difensive ed al ruolo difensivo) in cui si dibatte vasta parte dell’avvocatura, la si è constatata allorchè le S.U. ( e prima ancora il gup e la corte d’appello di Torino) , all’esito di una vicenda giudiziaria che aveva visto un avvocato accusato del reato di falso ideologico per aver “manipolato” il verbale redatto ex art.391 bis c.p.p. , con sentenza in data 27 settembre 2006, hanno affermato che il difensore, nello specifico momento in cui redige e sottoscrive il verbale delle informazioni assunte da un testimone , ex art.391 bis c.p.p. , deve essere considerato “pubblico ufficiale”.
Questo principio, che dovrebbe apparire finanche ovvio, ha invece visto esplodere una fortissima contestazione da parte di vasti strati della avvocatura penale i quali denunciavano che, attraverso tale principio, si tendeva a “limitare “ la libertà del difensore nell’esplicazione del mandato difensivo!
Appare evidente come un approccio di questo tipo non possa che svilire il prodotto di quella attività investigativa rispetto alla quale l’avvocato ritenesse lecito avere “le mani libere” di manipolare il contenuto di un atto da lui stesso redatto. Non rendendosi conto che il valore probatorio di tale atto, in tanto potrà sussistere nella sua “spendibilità” endoprocessuale, in quanto sia vincolato a rigorosi criteri di “fedeltà” e corrispondenza fra il narrato ed il verbalizzato.
Le indagini difensive sono in grado di esplicare piena finalità probatoria (concetto oramai costantemente ribadito dalla giurisprudenza di merito e di legittimità); ma l’avvocato deve essere disposto a pagare il prezzo di una siffatta acquisita posizione di forza: “prezzo” che l’avvocatura tradizionale non intende pagare. Questa è una importante causa che rallenta od ostacola il ricorso alla attività di indagine difensiva.
Passando dall’aspetto relativo all’approccio concettuale e ideale , a quello più propriamente concreto , deve essere osservato come lo svolgimento di indagini difensive ( in sostanza “assunzione di informazioni” ) presupponga , nell’avvocato, una radicale “metamorfosi” sul piano della propria identità professionale: in sostanza il difensore, nel momento in cui si trova ad interrogare il testimone, dovrà essere in grado di “spogliarsi” di tutto quel bagaglio prospettico che ne caratterizza la essenziale e specifica configurazione professionale . Egli dovrà essere in grado di acquisire quella “imparzialità” e quel “disinteresse” verso un particolare esito, indispensabili perché le domande rivolte al testimone non risentano assolutamente della posizione di “parte” rivestita dal “ sé” interrogante.
Questo, ad avviso di chi scrive, costituisce l’aspetto scarsamente considerato ma, in verità, quello più “inquietante” nella sperimentazione concreta della attività di assunzione di informazioni ex art.391 bis c.p.p. . Quello che scoraggia molti difensori onestamente consapevoli della grande difficoltà o della incapacità di spogliarsi del proprio ruolo. Questo è anche il vero aspetto di “fragilità” che attenta al corretto svolgimento delle indagini difensive e ne mina la credibilità.
Anche il difensore che intenda agire con il più assoluto rigore , sentendosi appieno investito del ruolo di “pubblico ufficiale”, avvertirà prepotentemente una spinta “inerziale” a muoversi nella prospettiva della difesa del proprio cliente, proprio a causa del suo essere “ontologicamente” ed a priori, il “custode” delle …buone sorti del suo assistito.
E’ qui dove la prospettiva di una efficace diffusione ed incisività processuale delle indagini difensive trova il proprio punto di intrinseca debolezza. E’ qui che il tema delle indagini difensive trova, nella applicazione pratica, il suo autentico, pericolosissimo ostacolo; ostacolo che solo una nuova concezione della difesa penale, purché espressamente e compiutamente sorretta anche da specifiche previsioni normative e deontiche , può riuscire a superare.

Avv. Renato Papa