Indagini Investigative o Difesa di Parte ad Oltranza

In questa rivista Alessandra Mannini quale collaboratrice dello Studio Stefani, e l’avv. Renato Papa hanno recentemente evidenziato i tratti essenziali della disciplina normativa sulle indagini difensive, introdotta con la legge 397 del 2000.
In particolare l’avv. Papa sostiene che l’innovazione sia poco consona all’attuale impostazione culturale dell’avvocatura, nel cui ambito si ritiene comunemente, sotto il profilo normativo e deontologico, che il difensore, quale portatore di preminenti interessi di parte, abbia la facoltà (se non il dovere) di proporre ricostruzioni storiche consapevolmente false qualora si rivelassero utili agli interessi del soggetto assistito. In tale prospettiva, si conclude, sarebbe arduo richiedere al difensore di assumere prove finalizzate alla tutela (oggettiva) del contraddittorio probatorio quale fondamento epistemologico della giustizia moderna.
Non vi è dubbio che le inspiegabili riserve dell’avvocatura, nella sua più rilevante rappresentanza penalistica, alla natura pubblica dell’indagine difensiva (ormai indiscutibile) possa avvalorare una tale, sconsolata, conclusione.
Si concorda, inoltre, sul fatto che nel nostro ordinamento l’avvocato possa sostenere tesi ricostruttive non vere, seppure alla scontata condizione che ciò non sia supportato da prove false introdotte di propria iniziativa o dalla parte rappresentata. Sul punto giova richiamare, a parte i profili penalistici del concorso o del favoreggiamento, la disciplina dettata dall’art. 50 del Codice Deontologico Forense secondo cui:
1. L’avvocato non deve introdurre nel procedimento prove, elementi di prova o documenti che sappia essere falsi.
2. L’avvocato non deve utilizzare nel procedimento prove, elementi di prova o documenti prodotti o provenienti dalla parte assistita che sappia o apprenda essere falsi.
3. L’avvocato che apprenda, anche successivamente, dell’introduzione nel procedimento di prove, elementi di prova o documenti falsi, provenienti dalla parte assistita, non può utilizzarli o deve rinunciare al mandato.”
In altri termini non è vietato, come sembra sussistere in altri ordinamenti (penso a quello degli Stati Uniti) la mera deduzione di ipotesi non vere. Ciò, per altro, potrebbe essere il naturale corollario del metodo “popperiano” di epistemologia giudiziaria, in cui la ricostruzione processuale del fatto storico deve reggere al tentativo di falsificazione a prescinde dalla veridicità del fatto alternativo. Se l’ipotesi accusatoria può essere messa in discussione da altra ipotesi alternativa non provata, ma solo dedotta, significa che difetta del requisito minimo di certezza probatoria necessaria alla sua affermazione giudiziale. Infatti, giova ricordare che la prospettazione difensiva di vicende storiche alternative a quelle contestate, qualora non sostenuta da elementi probatori di riscontro (magari inferenziali se non diretti), non viene riconosciuta come ipotesi di dubbio processualmente ragionevole, per cui allo stato attuale della elaborazione giurisprudenziale, trova poco spazio nel processo penale.
Non privo di valenza sistematica è poi la particolare disciplina di favore stabilita della legge 397-2000, che, anche nella ricostruzione giurisprudenziale della Cassazione a sezioni unite del 2006, che qualifica il difensore come pubblico ufficiale nello svolgimento della sua attività investigativa, attribuisce valore giuridico di atto pubblico all’atto di indagine difensiva solo se “speso” processualmente. Ciò che induce come conseguenza che lo stesso atto (privo in origine di tale natura) possa essere legittimamente occultato (se non addirittura soppresso) dal difensore, qualora ritenuto non confacente agli interessi di parte.
Tale caratteristica (più unica che rara nel panorama giuridico nazionale e penso anche internazionale) è così gelosamente tutelata dall’avvocatura che il codice deontologico punisce con la sanzione edittale della censura il caso del difensore che violi il divieto di consegnare alla persona sentita copia del verbale delle dichiarazioni rese (art. 55 comma 11); divieto ritenuto connaturato alla irrinunciabile facoltà di non utilizzo dell’atto, altrimenti eludibile qualora già divulgato o potenzialmente divulgabile.
Ma, pur in tale quadro conoscitivo, non appare condivisibile declinare una sostanziale estraneità delle indagini difensive al corpo sociale di riferimento: esperienze significative, alcune anche pubblicate recentemente su questa stessa rivista, dimostrano il contrario. Anche i Giudici apprezzano il lavoro investigativo dell’avvocato, se caratterizzato da serietà e abnegazione. L’innovazione culturale che contrassegna la normativa in vigore si rinviene nella sua pratica attuazione più che nella sua conformazione legale, secondo modelli di tipo esperienziale tipici di altri ordinamenti (anche convenzionali) dove il diritto vivente precede quello formale (si pensi al principio del ragionevole dubbio di origine giurisprudenziale e poi codificato nell’art. 533 cpp, o, recentemente, dalla innovata disciplina delle impugnazioni di cui alla legge 103/2017 -cd legge Orlando- che riprende il contenuto di arresti giurisprudenziali in materia di specificità dei motivi di gravame).
D’altronde il capitolo delle indagini difensive è ancora molto da scrivere e dovrà prima o poi coinvolgere anche il processo civile, dopo alcuni pallidi ed inconcludenti tentativi. L’art. 55 del CDF disciplina solo le indagini penali, integrando la legge 397-2000, disponendo per il resto solo il divieto di intrattenersi con le persone informate allo scopo di conseguire deposizioni compiacenti. Certo la diffidenza storica verso i rapporti con i testimoni nel settore civile è ancora fortissima e permea la stessa giurisprudenza disciplinare del CNF. Essa però se si pone in contraddizione con i nuovi doveri posto al difensore dopo la liberalizzazione del contratto professionale, in particolare con il dovere di informazione sugli esiti probabili della causa, sancito dall’art. 27 comma 1 del CDF e dalla legge 247/2012; ciò che presuppone la conoscenza dei fatti e delle relative fonti di prova.
Non vi è dubbio che la subordinata posizione del difensore nel processo sia più comoda rispetto all’iniziativa probatoria, ma oltre alla convinzione personale e allo conoscenze investigative, saranno la prassi e le aspettative dei clienti che faranno da spartiacque tra vecchia e nuova concezione, fermo restando che le indagini difensive, al di là dell’assunzione di informazioni dichiarative, richiedono impegni economici non da tutti sopportabili (ma questo è un altro discorso).

Gianni Marasca

Alessandra Mannini
(Collaboratrice Studio Legale Stefani)